C’è un momento, dopo uno spettacolo andato in scena con l’energia di un primo appuntamento e la consapevolezza di un amore che dura da anni, in cui l’adrenalina cala, la sala si svuota, e tutto ciò che resta è il silenzio. È lì che si scopre la pasta vera di un comico. Ed è lì che ci siamo trovati con Carmine Del Grosso, il giorno dopo il suo Periodo Refrattario, andato sold-out a Lecce. “Finita l’adrenalina, uno vuole dire ‘andiamocene’. Però preferisco il giorno dopo, non subito dopo lo spettacolo”, ammette, con quella pacatezza che tradisce chi del palco ha fatto casa, ma senza mai smettere di cercare la porta sul retro per guardare la realtà da fuori.
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L’approccio al palco: un’opera in costruzione
Del Grosso non sale sul palco per “recitare”. Sale per esistere. C’è qualcosa di artigianale nel suo modo di lavorare ai monologhi, quasi fosse un falegname che ogni sera lima, toglie, aggiusta. “Ogni replica non avrà mai lo stesso testo al 100%. Mi tengo un 10% che cambia: improvvisazione, attualità, il posto in cui mi esibisco. Già so che stasera a Bisceglie farò uno spettacolo diverso da quello di ieri”. Una dichiarazione d’intenti che suona come un atto di fede: il comico non ripete, il comico riflette.
Nel suo Periodo Refrattario si percepisce il peso della maturità artistica: è uno spettacolo che nasce da una visione consapevole del vivere. “Rispetto agli altri, è più maturo, inteso come temi trattati. Parlo di relazioni, età, di una determinata era della vita. È consapevole, perché lo sono io, oggi, del mio percorso”. Una crescita che si sente anche nella struttura dello spettacolo, che evolve come un organismo vivente. “Uno spettacolo è come un figlio. Anche se funziona, pensi: poteva ancora migliorare. Non finisce mai davvero.”
Scrittura e stile: dalla pagina alla platea
La scrittura, per Carmine, è uno specchio puntato sul quotidiano. Ma non c’è nulla di cinico, nulla di saccente. “Non faccio lezioni. Non mi interessa insegnare nulla a nessuno. Ti porto quello che vedo, se lo vedi pure tu siamo in due, sennò mi dispiace, cercherò qualcosa che ti faccia aprire gli occhi.” La sua è comicità osservazionale, certo, ma con un filtro umanissimo, mai pretenzioso. Ti accompagna, non ti spinge. Fa ridere, sì, ma spesso ti lascia con quel “Oh Madonna, sta parlando di me…” che è la vera firma di chi sa raccontare il presente.
Il suo stile rifugge il “meccanico”, il “tavolino”. Non ama il black humor fine a se stesso: “Mi sembra come quando vai a una cena dove tutti i piatti sono piccanti: alla fine dici ‘che merda è?’”. L’arte comica, per lui, deve conservare spontaneità, non essere solo un esercizio di shock. “Tutti possiamo fare battute sui preti pedofili, ma quello non è black humor. È un cliché, un trucco facile. La vera difficoltà è far ridere su due mosche che scopano”.
Il rapporto con la TV: tra compromessi e confini
È abituato alla TV, ma non ci si è mai piegato. Da “Propaganda Live” a “Belve”, ogni presenza mediatica è stata un esperimento calibrato. “La TV non è dal vivo. Se riesci a non snaturarti, hai vinto. Se accetti troppe logiche, perdi la tua voce.” E qui Del Grosso scivola in un territorio più cupo, dove la riflessione è amara: “Ho visto colleghi sfruttati male. Programmi comici dove ti chiamano per fare il comico, ma poi ti limitano. E se non stai attento, perdi pure te stesso.”
E su Propaganda: “Lì il pubblico non è per te. All’inizio è dura. Ma poi ho detto: fatemi fare le mie cose. Io non faccio satira politica, faccio satira sociale. E quando sei cinque ore a parlare di politica, il momento comico serve eccome. È il cuscinetto”.
Carmine Del Grosso: il pony casertano
Tra una riflessione filosofica e una battuta improvvisata, Del Grosso resta un uomo profondamente coerente. Non un predicatore, ma un testimone. Avendo lavorato con la Fagnani, ci siamo meravigliati che lei non gli abbia mai chiesto che belva si sente, neanche così per curiosità, davanti alla macchinetta del caffè. E così glielo chiedo io che bestia si sente, e lui risponde senza pensarci troppo: “Un casertano!”. Grasse risate, poi ritratta: “Vabbè, dài, un pony, che è caruccio e raro”. Preferivo la prima risposta, gli dico. E allora mediamo: “Un pony casertano. Sottovalutato, simpatico.” Una metafora che gli calza a pennello: non ha bisogno di imporsi, ma quando entra in scena, lascia il segno.
Il suo percorso? Parte da Benevento, Circello per la precisione, poi Roma, Milano, ora Torino, ma vorrebbe tornare a casa sua. O magari a Lecce. Sono d’accordo con lui: “Vivere al Sud da ricchi è meraviglioso”. E lui: “Il mio sogno è tornare giù, ma per ora mi godo Torino: città con un piede nel passato e uno nel futuro”. Milano? “Utile per il lavoro, ma ti prepara alla vita in un modo individualista. Quando sei giovane sogni il monolocale in centro, poi capisci che vuoi spazio, verde, relazioni.”
Dieci anni di palco, una missione ancora viva
Sono passati undici anni dal suo primo open mic, e oggi Carmine Del Grosso è ancora lì, sul palco, a testare battute, limare pause, accarezzare le reazioni del pubblico. “Se scrivessi oggi i testi di 11 anni fa mi farei schifo. È giusto così. Cresci, cambiano le esperienze, cambiano i monologhi. Ma la tua cifra, quella non deve mai morire.”
I suoi riferimenti? In Italia: Frassica, Milani, Rezza, Giardina, Ravenna, Rapone, Tinti. All’estero: Louis C.K., Ricky Gervais, i classici. E per chi cerca una lettura sulla scrittura comica, consiglia “Finding Your Comic Genius” di Adam Bloom. Come a dire: anche dopo un decennio, la comicità si studia ancora.
Ultima battuta, promessa mantenuta
Sullo stile, sulla scrittura, sul palco, Carmine Del Grosso ci ha lasciato una lezione senza mai mettersi in cattedra. L’impressione è che, al netto dei palinsesti, delle sale sold-out e dei pezzi in TV, quello che davvero gli interessa è una cosa sola: essere onesto. Con chi ascolta, con chi ride, con se stesso. In fondo, è questo il mestiere del comico: trovare l’unico modo possibile per dire la verità — ridendo.